(photo by Davide Gasparinetti)
Ascoltare una canzone d’amore anni ’50 è una passeggiata in un cimitero di campagna dimenticato: una rassicurante malinconia auto-distruttiva. C’è l’emozione, la gioia, la trepidante paura dei sentimenti delicati che si credono unici, subito smentiti dal pragmatismo del tempo.
In affitto anche con le illusioni, ad Antigone poco interessavano le dietrologie razionaliste: era bello e basta. Starsene in un luogo chiusissimo, quasi ermetico, due murales da parete – uno ancora in sogno – la luce rossastra della lampada di Amélie, con un maiale in vestaglia a righe che avrebbe anche potuto esser triste se non fosse stato così surreale. Dicono che a Milano quella zona fosse stata particolarmente presa di mira durante i bombardamenti, e palazzi sventrati sembrassero urlare di rabbia all’eleganza del corso. Oggi a far rumore c’erano solo macchine, ristoranti eleganti, tavolini d’aperitivo e, in sordina, i retaggi del quartiere: chiesa, sagrato, panetteria, persino una carto-tipografia storica sopravvissuta a tutto il Novecento ed oltre, che ancora vende con orgoglio i suoi pennini a qualche dodicenne brufoloso.
Sul tavolino all’ingresso occhieggia una Lonely Planet. Una sola scritta sul costone arancione (della copertina nulla si è più saputo): Atlantide.